Wax Museum: terzo e quarto capitolo

3 STAIRS

Le scale erano state progettate nel Settecento dall’architetto Filippo Juvarra, che a Torino realizzò moltissime meraviglie tra cui la facciata di Palazzo Madama in una riqualificazione urbanistica barocca. Se fosse stata una bella giornata sarebbe entrata tanta luce dalle ampie vetrate. Ma non lo era. Aveva cominciato a piovere nell’esatto momento in cui Dora era entrata. Una pioggia battente, forte e ritmata.

C’erano delle volte a vela, tre rampe di scale con pianerottoli arricchiti da marmi pregiati, scacchi e una ringhiera dello stesso colore e fattura del portone d’ingresso. La ringhiera riportava delle grandi mosche di fogge diverse con occhi indagatori. Erano ringhiere di metallo che somigliavano tantissimo ai balconi che si trovano al primo piano di casa Colongo, opera di Antonio Vandone di Cortemilia, in via Catania 35. Tra lo stile Liberty e l’Art Déco.

Dora conosceva bene quei balconi perché il Nonno la portava sempre a vederli. Amava cercare le bestie di Torino. La magica città ne possedeva tantissime: draghi sui portoni, mosche di ferro nelle ringhiere, cavalli, ragni, serpenti e scimmie. Senza contare le lucertole e le libellule.

Un antico pendolo intagliato faceva da ingresso a una porta sotto le scale che dava sul nulla. Non si capiva cosa ci fosse dentro. Sembrava proiettarsi sul vuoto ma Dora era troppo lontana e non poteva capire bene cosa ci fosse oltre la soglia.

Per qualche minuto rimase lì immobile a fissare l’omone alto con la candela che armeggiava con un enorme cerchio di metallo carico di chiavi. Teneva stretto il cappotto, che le aveva detto di togliere, sul braccio e cercava di acquisire tutti i dettagli possibili. Quell’entrata sfarzosa era davvero spettacolare. Avrebbe tanto voluto che nonno Emanuele fosse con lei.

Era spaesata. Il museo poi, si accorse, non aveva tante indicazioni precise. Non c’erano cartelli, spiegazioni e frecce. Non c’era nulla, neanche una targhetta sotto i quadri. Si domandava se quella fosse davvero l’entrata aperta al pubblico o un accesso riservato. L’omone perdeva tempo e a Dora saltò in mente l’improvviso pensiero di andar via.

Pensò davvero di svignarsela, nonostante la curiosità di scoprire cosa le riservasse quella giornata fosse assolutamente più forte di ogni cosa. Mentre pensava a piani di evasione possibili, giusto per allenare la mente, l’uomo con la candela aveva nel frattempo aperto una piccola porta vicino alle scale e disse perentorio “Lì”.

“Il cappotto lì?”, chiese Dora sperando che intendesse proprio questo e non che lei stessa dovesse rinchiudersi lì dentro.

Annuì.

Dora entrò nella stanzetta piccolissima abbassandosi per non rischiare di sbattere la testa. Al centro di questo minuscolo spazio c’era una poltrona.

L’uomo con la candela disse nuovamente “Lì”.

Una volta messo “lì” il cappotto Dora uscì.

Le venne consegnato un catalogo piuttosto grande, che scoprì essere la mappa del Museo, con la storia e un album fotografico inerente alle diverse collocazioni delle opere esposte. L’omone con la candela indicò a Dora un mobiletto, che somigliava più a un porta piante. Sopra questo c’era una grande vassoio di cristallo ricamato con finiture d’argento. Dentro un oceano di Nocciolini di Chivasso. Quanto amava i Nocciolini di Chivasso! Dora non se lo fece ripetere due volte. Andò incontro al porta piante, perché si convinse che lo fosse a tutti gli effetti, e affondò la mano prendendo un ricco pugno di noccioline. Le teneva nella mano sinistra e le raccoglieva, una ad una come fossero pop corn, con la mano destra. Quel sapore. Quel sapore la trasportò al Parco Valentino dove nonno Emanuele la portava sempre la domenica mattina. Dentro la giacca aveva sempre qualche Cri-cri, quei deliziosi cioccolatini ricoperti di zucchero, e i nocciolini di Chivasso. Dora correva a perdifiato, inseguiva farfalle, raccoglieva foglie da incollare nel suo quaderno delle indagini e raccolte e quando si riposava un po’ sulla panchina accanto a lui: il rito. Nonno allungava la mano dentro alla giacca e dalla tasca interna estraeva quel sacchettino con dentro le delizie da spartire. Si contendevano il Cri-cri rosa, il più ambito in assoluto, e Nonno le cedeva sempre i nocciolini. A lui piaceva lanciarne uno in alto e acchiapparlo con la bocca quando nessuno li vedeva. Dora scoppiava a ridere e lo pregava “Ancora nonno! Ancora”.

E lui l’accontentava sempre; viveva per questo, in fondo.

Dora venne distolta da un colpo di tosse. L’omone la fissava.

Ringraziò abbozzando un sorriso ma, non ricevendone uno in cambio, decise di fissare le scale sgranocchiando altri nocciolini. In attesa che qualcosa accadesse o che qualcuno arrivasse.

Non dovette attendere molto. Una voce alle sue spalle la fece sobbalzare.

4 SWEET 

“Ohhhh mon Dieu”.

Dora sobbalzando deglutì il nocciolino. 

Davanti a lei una donna magra e alta, con un collo molto lungo e meravigliosamente abbigliata, la scrutava. Aveva una gonna, di incredibile fattura vittoriana, piatta nella parte anteriore e gonfia dietro con un enorme fiocco a quadretti.

Un solido corpetto abbottonato con un altro fiocco in velluto nero e una spilla sul petto. I capelli erano raccolti in un grande chignon voluminoso mentre un ciuffo sorprendentemente preciso si ergeva come un grande eclair proprio sopra la fronte. Teneva saldamente tra le mani una tazza di porcellana decorata con motivi del Settecento e finiture dorate, colma di un’enorme quantità di panna. Doveva essere una bevanda calda e fumante, di sicuro buonissimo cioccolato perché l’odore era proprio inconfondibile.

Forse era un Bicerin, pensò Dora. Quanto ne avrebbe voluto uno adesso per riscaldarsi. C’era infatti un po’ di freddo e si pentì amaramente di aver abbandonato il suo cappotto. Avrebbe potuto riprenderlo da “lì”, ma il solo pensiero di rivolgersi all’uomo bendato la dissuadeva. No, il Bicerin avrebbe atteso. Anche perché dove diavolo era finito l’omone alto con la candela?

Gli occhiali piccoli e tondi erano tenuti da una catenella dorata che si agganciava alla spilla. Quel gioiello doveva essere un’eredità di famiglia perché oltre ai diamanti e alle pietre preziose in bella vista c’era un’iscrizione che Dora non riusciva bene a decifrare a quella distanza.

“Buongiorno”, disse facendo un piccolo inchino senza rendersene conto.

“Bonjour mia cara”, disse con tono freddo e distaccato l’elegantissima signora sbucata da chissà dove.

“Sono Madame Gianduja Wax, ma questo lo saprà già. Leopoldò le ha già spiegato come funziona la visita prima di proseguire al vero intento della giornata, che tipo di comportamento adottare nei vari piani del museo e le cose da non fare assolutamente giusto?”.

“Veramente…”, cercò di intervenire con scarsi risultati Dora.

“Bene bene. Non perdiamoci in chiacchiere che il mio bicerin si fredda. Mon Dieu, non sia mai. Si è fatto tardi e ho molte cose da fare, come lei immaginerà certamente. Ci vediamo poi per il tè. Au revoir”, si girò e scomparve esattamente nel punto indefinito da dove era apparsa.

Dora era sempre più confusa. Felice di aver visto qualcuno, oltre Leopoldo con l’accento sulla o.

Continuava a girarsi attonita e confusa. Le pulsava in testa un’unica domanda: “vado verso le scale o mi giro verso il portone?”. 

Non capiva. Era stata invitata dalle Duchesse Wax in persona e ora una delle due voleva che girasse per il Museo? Che cosa stramba stava accadendo?

Decise, più incuriosita e turbata che mai, di proseguire verso le scale. Leopoldò, o quello che pensava essere Leopoldò, non c’era più. Svanito. Nel nulla. Dora non riusciva a smettere di controllare se fosse alle sue spalle. Due scalini in avanti e poi subito voltandosi indietro. Due in avanti e ancora indietro. Questo le fece improvvisare una sorta di balletto sulle scale. Si sentiva confusa, ridicola ma al tempo stesso stranamente eccitata da tutto quel mistero.

Wax Museum: terzo e quarto capitolo

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