Muccu
U muccu. U neunatu (neonato). Il bianchetto, lo chiama il Torinese. In Sicilia però è U Muccu e delle famosissime polpette parliamo tra un po’. Se mi leggi da un po’, sul Blog, sai già che per me fotografare occhi e parti definite e soprattutto carne in genere, facile non è. E, inutile specifica, per me carne si intende anche pesce. Lo faccio ormai da anni per la mia smisurata passione foodie, che è a tutti gli effetti l’unica terapia che abbia sortito qualche effetto per i miei disturbi legati al cibo, ma te lo dico onestamente non è sempre facile. E in quest’occasione non lo è stato affatto. Raccontare quello che ho di più prezioso e farlo anche e soprattutto attraverso quello di cui ho più paura è una forma di catarsi. Un po’ come disegnare; ma questo te l’ho già detto.
Ho un rapporto complicato con questi pesciolini in particolare. Perché mi ricordano tante di quelle cose belle che non bastano spazio e parole. Il fatto che gli occhi spenti facciano da contorno a tutto questo è un macabro rituale sentimentale a cui mal mi sottopongo.
Quando ero piccolina tentavo di rimetterli in acqua come una novella Frankenstein per rianimarli e anche qui sai, se mi leggi sul Blog, che il mio rapporto con gli animali di qualsiasi genere è sempre stato un po’ questo. Convincere papà a riattaccare la coscia di pollo alla gallina per farla camminare bene e ributtare in mare il Neonato perché era troppo piccino e la mamma e papà lo stavano cercando. Diciamo che sono sempre stata una rompiscatole che si è fatta sempre tante storie in testa.
Uno dei ricordi più belli che ho, legato a questi piccolini, voglio raccontartelo oggi. Il cuore è già stretto stretto in una morsa. Non so come raccontarlo bene, allora lo faccio così di getto come sempre e senza pensarci troppo.
Mamma, calabrese, ha sempre mangiato più carne rispetto al pesce, chiaramente. Venuta a Catania davvero da piccola ha mantenuto, insieme a tutta la sua famiglia calabrese, la tradizione della carne. Papà, siciliano doc, al contrario ha sempre prediletto il pesce nella sua dieta.
Mamma era innamorata come una volta. Il suo unico uomo e sogno di sempre. Turi con il completo alla John Travolta in bianco, che lei stirava nella smacchiatoria del padre, lo vedeva passare con la cinquecento. Hanno litigato tra presse per pantaloni e percloro. E si sono pure innamorati. Papà le ha poggiato un anello su un asse da stiro. Le ha sorriso. Si è girato e se ne è andato. Papà era quel principe azzurro un po’ musone e di poche parole ma estremamente romantico che ogni ragazza sogna, diciamolo.
Quando si sono sposati papà ha cominciato a chiedere, sotto le insistenze di mamma, pranzi e cene a base di pesce. Mamma, orgogliosa testona, non sapeva da dove cominciare. Era abituata a friggere e arrostire carne in tutte le salse ma di pesce proprio non se ne parlava. Papà, sportivo da sempre e con la fissa della corsa, voleva pure mantenersi in forma e c’era questo macigno che aleggiava nell’aria: cibo sano e leggero.
A MAMMA? CIBO SANO E LEGGERO?
Papà non aveva ben chiaro cosa lo avrebbe aspettato a tavola ogni giorno per i quarant’anni che sono stati sposati.
Un giorno papà portò del muccu a mamma. Gli spiegò che gli piaceva anche crudo così. Marinato con limone e un filo d’olio.
Andò a lavorare, un bacio a dopo. Mamma quando racconta questa storia ride sempre rumorosamente e poi vedi quelle lacrime che le scendono agli angoli. Le stesse che stanno scendendo a me, sorridendo, in questo momento.
Mamma vedendo tutti questi micro occhietti ebbe un coccolone. “E quanto tempo impiegherò per toglierli tutti?”.
Non aveva mai visto il neonato. Ma soprattutto non chiamò né sua mamma né sua suocera, che ha amato come una madre e che ha ricevuto un amore ancor più forte e sincero da mamma, perché intestardita dal fatto che voleva riuscirci da sola.
Morale della favola?
Papà la trovò lì. Esausta. Mentre con una forbicina piccolissima cercava di togliere gli ultimi occhi dal mucco. Un chilo di muccu, inciso; che è davvero tantissimo.
Papà ridendo tra amici quando ricordava questa storia diceva sempre che in quel momento l’unica cosa che ha pensato è stata “ma chi ho sposato?”.
Quel giorno finì in un abbraccio e in una fragorosa risata.
Ho sempre voluto pensare che sia stato il giorno in cui tutti quegli occhietti spenti si siano trasformati in luce. E che poco dopo sia arrivata io.
Perché tutti mi dicono sempre che ho gli occhi sbirluccicosi.
Merito della magia. Che trasforma orrori in meraviglie.
Puppetti co Muccu
Muccu a Catania ma anche neonato, neonata, bianchetto, nunnata, crudi, poutine, bianchetti, nudi e infinito altro. Mi hai raccontato dei tuoi ricordi. Del tuo mare e della tua nonna. Mamma e zia. Mi sono commossa. Anzi no, rettifico, ci siamo commosse insieme come davanti al pensatoio di Silente. Ripercorrendo ricordi che seppur in luoghi e tempi diversi, anche molto lontani, hanno lo stesso sapore, emozione e significato.
Le polpette di muccu le puoi fare un po’ come vuoi. Chi ci mette il pecorino grattugiato o il parmigiano. Tanto, dico. Chi poco perché copre il pesce. Chi ci mette l’aglio e pure il pangrattato che in Sicilia è ‘a muddica sempre e per sempre. E chi, come mamma, aggiunge solo l’uovo e la farina. Il minimo indispensabile affinché il sapore del pesce non si perda. Se hai letto la mia breve storia la scorsa volta starai già sorridendo immaginandola lì seduta per ore a compiere l’impresa epica e non te lo nascondo anche io. Ogni volta che la vedo armeggiare con il muccu in mano vengo catapultata in quella cucina color noce con aprisportelli a bottoncino rotondo e quei buchi dove infilare le bottiglie di vino che sembrava tanto moderna, allora. Quelle sedie intrecciate e marroni con i gommini sotto e il pavimento di quel finto marmo che fa tutti i colori che vanno dal bianco al nero al marrone. Eppure io non ero nata. Ma mamma è lì. A togliere gli occhi sbuffando. Con i suoi lunghissimi capelli neri raccolti. Con i suoi occhi, come il carbone, concentrati e attenti. E la sua pelle olivastra perlata dal sudore e dalla concentrazione.
Non smetto mai di vedere quel momento mai vissuto eppure così nitido tanto l’ho immaginato, che potrei addirittura dirti che forma avevano le nuvole oltre la finestra dove si scagliava l’Etna fumante. A te capita?
Le polpette di muccu non mi sono mai piaciute, eppure ne sento dire meraviglie. L’ultima volta che le ho assaggiate risale a più di vent’anni fa.
E tutte le volte mi incuriosisco. Mi chiedo: chissà di cosa sanno. Chissà che sapore hanno.
E tutte le volte mi incuriosisco. Mi chiedo: chissà di cosa sanno. Chissà che sapore hanno. Allora, come faccio spesso, lo chiedo, dopo essermi concentrata fortissimo sul ricordo del mio sapore in bocca. Mi piace sentire le persone che amo raccontarmi i sapori.
Tutti sentono e provano qualcosa di diverso. E ogni volta, a seconda della sensibilità, esce fuori sempre un racconto. Un nuovo racconto.
Mamma mi racconta del sapore da più da trent’anni e ogni volta si aggiunge un elemento in quel ricordo di lei.
Una volta le ho chiesto: ma ti ricordi com’eri vestita?
No.
Secondo me di bianco, mamma.
E anche il passato, allora, si adegua e si trasforma. E per me e lei: vestito bianco.
E forse un giorno mi andrà di assaggiarlo davvero. E allora sì che lo farò. Vestita di bianco, con mamma e rigorosamente senza formaggio. Deciso, è.
La Torta di Masculini
A torta di masculini (su IGTV il video) Mi diverto tantissimo a farmi spiegare le ricette da mamma. Si arrabbia quando le parlo di quantità, di temperatura del forno. Mi manda amorevolmente a stendere i panni perché il suo motto è: cucinare. Senza ingredienti, aggeggi elettronici, fruste, misurazioni o solo il cielo sa cosa. Devo ascoltarla, memorizzare e capire. Non devo chiedere troppo. La ricetta si deve sentire nel profondo. Quando ha visto la spatola per dolci con il termometro incorporato mi ha guardato delusa come poche volte in vita sua. La ricetta te la spiega lentamente e con dodicimila aneddoti e spiegazioni ma se desideri qualche chiarimento più tecnico: ti fissa con quegli occhi neri come il carbone con somma disapprovazione. Ora. Mamma è qui seduta accanto a me e ti lascia la sua ricetta della torta di Masculini a patto che:
– Non deve chiamare i Masculini: alici. Perché sono masculini (inattaccabile)
– Non deve chiamare a muddica: pangrattato. Perché è muddica (inattacabile parte seconda).
– Non devi spaventarti per l’accostamento formaggio-pesce (attaccabile ma possiamo spiegarti)
Nonostante nella bibbia del perfetto siculo al capitolo “pesce e formaggio” ci sia solo la scritta gigantesca NO seguita da una pernacchia fragorosa posso dirti che in pochi contesti va bene.
E questo è quel raro caso in cui il siculo taccerà.
Mamma (non dovrei dirlo) una volta mi ha detto: sai che ci ho messo pure il galbanino dentro il tortino una volta e papà non se ne è accorto e mi ha detto che era buono? (lo ha detto ridendo. Io ero talmente scioccate che ho buttato giù il caffè amaro e non so neanche descriverti a parole quanto detesti il caffè amaro).
Questo segreto mai svelato avrebbe potuto causare la fine di un matrimonio quarantennale. Non lo ha fatto, grazie al cielo. Ma forse ha compromesso per sempre il mio rapporto con mamma. La faccio breve, dai. D’accordo è il raro caso del masculino con il pepato siciliano grattugiato fresco ma, non me ne voglia il simpatico signor Galbani, il galbanino ti prego: NO.
Ma dimentichiamo questa macchia incancellabile nella vita culinaria di Nanda e passiamo oltre. Dimentichiamo, se riusciamo, l’abbinamento mascolino-galbanino e la nostra salute mentale ci ringrazierà (non riesco a dimenticare).
Adesso parliamo del tortino che ti farà perdere la testa. Perché io lo so che questa ricetta ti piacerà tantissimo. E te la lascio con affetto, insieme a Nanda.
Se ti capitano due masculini siculi veraci sotto mano (ma anche due alici romani o venete per carità) agguanta il pangrattato, togli l’etichetta e fatene una homemade con su scritto “muddica sicula” e dacci sotto. Nanda addirittura consiglia di sostituire con il formaggio tipico del luogo. Una cosmopolita, Nanda. Che vuole vedere il masculino romano sposato al pepato romano. Una donna che è food blogger dentro. Almeno una seria in famiglia c’è.
La spiegazione di Nanda
(abbreviata perché la sua durava dodici ore):
Pulisci il masculino. Togli la testa, lisca interna e coda. Lava per bene. Ho detto lava bene? (si vede che ha partecipato a io e le mie ossessioni igieniste?). Sistema tutto il pesce su un piatto e bagna generosamente con dell’aceto di vino bianco. Lascia riposare per dieci minuti. In una terrina versa a muddica, prezzemolo tritato finemente, parmigiano o pepato siciliano grattugiato fresco, aglio schiacciato se piace (facoltativo), sale (non troppo). Prosegui a strati.
Olio. Masculini. Muddica. Olio. Muddica. Masculini. Finisci con muddica (ti ho convinto a chiamarlo mollica il pangrattato?). Inforno a 180-200 per (dipende dalla quantità e dall’altezza, di solito tre strati massimo quattro) fino a quando è dorato tutto ma dovrebbero passare non più di 40-45 minuti.
E se ci metti il galbanino non confessarlo mai a nessuno.
Occhi di bue
Papà amava la pesca subacquea. Più vedere i fondali a dirla a tutta, ma negli anni 80 qualcosa pescava. Poi ha smesso e guardava soltanto. Anche in giro per il mondo. Lo so che leggendomi da un po’ dirai: ma faceva tutto tuo papà?
Sì. E me ne stupisco anche io. Se ne è sempre stupito chiunque, a dirla tutta. Non so come ma riusciva a moltiplicare il tempo. Non capisco come facesse. A volte ci provo anche io ma non riesco come lui. Romanzare papà non occorre perché sono cosciente che il suo essere eccezionale non sia raccontato esclusivamente da me ma da tutti quelli che lo hanno conosciuto. Oltre a una figlia innamorata mi piace anche essere una cronista obiettiva della mia vita; poi la magia dell’amore condisce, certo.
C’è stato un periodo in cui papà pescava le murene. E non si capiva bene il perché. Lui non le mangiava. Mamma neanche. Io neanche presa per il colletto e incatenata. Però piacevano a dei suoi amici e quindi, oltre i ricci e i pesci e altro, qualche volta veniva su dalle acque con questo enorme serpente che a me non faceva paura. Sono sempre stata impressionata dalla bellezza dei rettili. Strano per un’ailurofobica che fino a qualche anno fa temeva un tenero gattino, ma i serpenti e tutto quello che somiglia o è un rettile mi ha sempre affascinato. Guardavo quella murena, che sembrava leopardata, pensando a quanto tutti i pesciolini della sua zona, grazie a papà, fossero adesso tranquilli senza di lei e le sue enormi fauci.
Insomma per farla breve giravo in largo con i pensieri per sottolineare che papà fosse un eroe. Aveva salvato i pesci della comunità dalla terribile murena leopardata! E le storie si disegnavano. E mi appuntavo tutto con la speranza poi di farci un disegno e una storia. Magari una fiaba. Solo che i quaderni si riempivano e riempivano. Troppo.
Troppe informazioni, storie, personaggi e un unico vero protagonista: papà.
Per questo quando trovo un po’ di tempo devo riprendere quei quaderni, sviluppare bene una storia che possa raggruppare tutto e far diventare papà un supereroe. Giusto per chiudere un cerchio e finire di crogiolarmi in paesaggi e storie che non hanno visto luce.Giusto per chiudere un cerchio e finire di crogiolarmi in paesaggi e storie che non hanno visto luce.
Ma oggi, intenti di sistemazione a parte, voglio parlarti del misterioso occhio di bue. Non tutti lo conoscono. Certo sentire dire occhio di bue ti fa pensare a un biscotto pieno di crema o a un occhio grondante sangue estirpato a un povero bue. Le categorie delle persone credo si possano tranquillamente dividere così. Io appartengono alla seconda, qualora ci fosse bisogno di specificarlo.
In realtà però l’occhio di bue è un gioiello del litorale etneo. Sono dei frutti di mare con una conchiglia di madreperla che ha un buco naturale -per farci collanine e bracciali- che sembrano forgiati da Polifemo con la stessa lava. Per farti capire velocemente il valore un chilo di occhi di bue sta intorno ai 90-100 euro. Sono rarissimi. C’è il fermo biologico e non sempre si possono prendere.
Negli anni 80 chiaramente la situazione era diversa e papà oltre alle murene nella zona di Brucoli arrivava dal mare con cesti di occhi di bue. A me piacevano tantissimo. Posso dire tantissimo? Sia crudi con il limone e olio che bruciacchiati qualche istante sulla brace. Raccoglievo la conchiglia che disegna pure un arcobaleno dentro e ci facevo le collanine, i bracciali e quelle più grandi – e ti assicuro che papà ne ha preso alcune che sembravano posaceneri- le mettevo nella mia stanzetta così d’inverno sognavo il mare e lo avevo lì. Sul comodino.Gli occhi di bue puoi trovarli, quelli buoni, solo da Nitto a Ognina. E se vai da Nitto proprio attaccato vedrai la clinica Gretter!
E io sono nata lì.
Sì, proprio lì. Sul mare. A Ognina. Nel cuore pulsante di Catania in mezzo al traffico, alle barche, ai pescatori, alle case distrutte e alle villone sul mare in quella miscellanea unica e incredibile. Se vai da Nitto potrai anche mangiarli così per strada su due tavoli alti, ombrelloni e sedie. Avviene in Medioriente e in Sicilia. In questo modo così magico.
In alcuni ristoranti, di un certo tipo, te li serviranno anche con spaghetti indimenticabili. Il primo posto che mi viene in mente dopo Nitto è Santa Tecla o Santa Maria la Scala, proprio sotto la meravigliosa Timpa.
Ecco io avevo dimenticato che sapore avesse un occhio di bue. Pur non mangiandolo l’ho sentito tra collane di ricordi e onde di emozioni.
Telline
Ti ho già detto infinite volte che mamma ama le telline. Arriva con il suo sacchetto da 700 grammi -peso fisso, sì- e le mette a spurgare altrimenti sgranocchi sabbia. Poi le cuoce soltanto con i pomodorini freschi e uno spicchio d’aglio che toglie. Quel poco di olio, che significa una secchiata per me; l’unità di misura varia da generazione a generazione, si sa. E poi via. Il rito delle telline ha inizio.
Religioso silenzio. Lei concentratissima come se stesse per risolvere una funzione matematica di difficilissima elaborazione e via. Una a una. Con una delicatezza e un ritmo preciso e scandito. Sta con gli occhi fissi sulle telline mamma. Non alza lo sguardo. E se si potesse conteggiare l’intervallo tra una tellina e l’altra so per certo che risulterebbe uguale al nanosecondo. Non le lancia a caso nel piatto ma le poggia e pure con cura. Forma come dei disegni circolari senza rendersene contro. Concentrici che vanno verso l’interno e quando finisce un piano inizia il secondo. Diventa come un palazzo di telline. Una fortezza.
Rare volte alza lo sguardo, mamma, mentre mangia le telline. E quando capita trova sempre me che la fisso. Mi sorride. A volte si ferma e mi dice “ma perché mi guardi?”.
Le sorrido a mia volta, faccio spallucce e poi lei continua.
E io pure, a guardarla.
Mi piace. Mi piace tantissimo guardarla mentre mangia le telline. È concentrata ma al tempo stesso felice e spensierata. Quello che mi piace più di mamma è che non cambia mai. È un’eterna bambina.
Mangia le telline così da una vita.
E io da una vita la guardo.
“Ma perché mi guardi?”.
E finisce sempre in un sorriso.
Non per forza deve esserci un motivo per tutto.
Fa stare bene, semplicemente.
Gli involtini di pesce spada
Gli involtini di pesce spada sono soprattutto Estate, qui in Sicilia. Si preparano in svariati modi ma uno dei classici irrinunciabili da tradizione familiare è con fettine di spada tagliate piuttosto sottili, imbottite con capperi, olive, pangrattato (o mollica vera e propria), spezie, prezzemolo, aglio e pure pomodori. Sono infinite le variazioni e dentro puoi davvero metterci le meraviglie che vuoi. Li ho visti fare in tutti i modi. Pure con il formaggio dentro, magari mischiando parmigiano o pecorino grattugiato al pangrattato. Li ho visti anche in formato spiedino ovvero raccogliendo tre o quattro involtini e infilzandoli alternando con verdura, che può essere peperone o zucchina o addirittura altri pezzi semplici di spada tagliato a cubetti o gamberetti. Insomma largo sfogo alla fantasia per gli involtini di pesce spada che possono essere fritti o cotti al forno o passati in padella poco importa.
Mia mamma dentro mette l’uvetta e i pinoli, che sono due ingredienti must della cucina tradizionale siciliana e li fa anche “caponata style” in agrodolce. Credo che mamma abbia fatto tutte le varianti infinite e che dentro all’insaputa di tutti ci abbia infilato dentro pure le sottilette. Se mi leggi su @runlovers sai che sono una nemica giurata delle sottilette. Mi sono inimicata tutti i runlovers italiani con un articolo sulle sottilette da non infilare nel carrello. E forse me lo sono meritata ma la sottiletta, concedimelo, proprio no. E quale punizione grande per una ripudiatrice di sottilette? Avere una mamma addict e folle che vorrebbe metterle pure a pezzi nel caffè.
Procurati delle fette di spada freschissimo e stendi sopra il ripieno. Poi ripiega e infilza con uno stuzzicadenti ma non dimenticare di toglierlo prima di servire, a meno che non sia sotto forma di spiedino.
In una ciotolina raccogli tutti gli ingredienti: pezzettini di pomodoro, prezzemolo, uvetta, pinoli e tutte le meraviglie -ma anche di più- che abbiamo detto.
Poi decidi la cottura che preferisci e più che si confà ai tuoi gusti e il gioco è fatto.
Poi decidi la cottura che preferisci e più che si confà ai tuoi gusti e il gioco è fatto.
A me nella versione spiedino piace alternare anche con gli agrumi. Vengono saporitissimi anche se metti sopra la scorza di limone grattugiata o alterni con foglie di limone.
E che una pioggia di involtini e bontà ti travolga.
Ricci
Sì papà prendeva pure i ricci. Perché mamma ne va pazza. Letteralmente pazza per i ricci. Non capisce più niente quando vede i ricci e se dici spaghetti coi ricci diventa un manga giapponese con occhi a stella e pugnetti sulla bocca. Emette gridolini kawaii e credo che intorno a lei si formino delle stelline scintillanti con scritte del tipo wow font 89 doppio colore. O almeno io le vedo.
Fernanda, ma chiamiamola Nanda, mandava il suo prode eroe Salvatore, ma chiamiamolo Turi, con la rete attaccata alla cintura via nei mari. C’era una pila fuori. Ora lo so che stai fissando il monitor dicendo “Iaia ma cos’è la pila?”. E te lo dico io, a patto però che tu da oggi in poi la chiami sempre e solo pila. Anche il Nippotorinese dopo anni di diniego ha ceduto e la chiama pila. Se ce l’ha fatta il sabaudo, puoi farcela pure tu. La pila è dove lavi le cose in lavanderia. Quel grande lavandino profondo con annesso “strofinatoio” laterale. Generalmente ne hai una in casa e una fuori. E in quella fuori della casa al mare ci finiva il pesce. Perché dentro ci finivano le lenzuola e i vestiti. Ha una sua logica incontestabile. Il pesce non ha bisogno di essere lavato e sfregato sulla pietra, lo so. Ma almeno nella mia casa al mare ricordo perfettamente che i ricci si pulivano anche lì. C’era più spazio, si lavava più facilmente e c’era tanto di quel pesce che neanche la profondità della pila bastava. I ricci si mangiano con il cucchiaino. Devi spostare il nero che è amaro e mangiare il rosso che sono le gonadi ma credo che tutti i siciliani urleranno all’unanimità: PANE! I ricci si mangiano col PANE! E in prima fila a urlare c’è mamma. Calabrese di nascita e sicula d’adozione. Mamma urlerebbe pane e ricci sempre e dovunque. Ma pure spaghetti con i ricci, insieme al risotto alla marinara sua specialità. Quando ero piccola mamma cercava di convincermi che erano la cosa più buona del mondo ma, a differenza degli occhi di bue, non ci sono mai andata matta. Mi piaceva però guardarli e vivisezionarli. Spostavo la parte nera, credendo fosse la cacca. Si può dire cacca su Instagram? Sai che non lo so? Non l’ho mai fatto. Speriamo bene.
A Portopalo tantissimi anni fa pescare i ricci era semplicissimo. Ce ne erano così tanti che non si sapeva più dove metterli. Adesso le cose sono cambiate e giustamente ci sono tempi e modi.
Ricordo le lezioni sui ricci. Papà mi diceva: vedi? Questo è più violetto quindi va bene (il colore nella parte inferiore identifica infatti la specie commestibile). Vedi? Questo è troppo piccolino, lo lasciamo. E io avevo solo un unico pensiero: avranno fatto la cacca?
Il compito che mi si prospettava a tavola era infatti pulirli. Meticolosamente. Mamma, figurati, passava con il pezzo di pane come un caterpillar e ridacchiava quando dicevo: nooooooooo c’è il neroooooooo, c’èèèèèè la cacccccc…
Ma.
Non so se si possa dire cacca su Instagram. So che non si poteva dire a tavola. Non tanto per papà che ridacchiava, quanto per la mamma che sbarrava gli occhi come se avessi detto qualche brutta parola. Che poi non le ho mai dette. Ci hai fatto caso? Perché in fondo sono ancora quella bambina che sa benissimo di non doverle dire ma che continua a provarci con.
Cacca.
Dei ricci ricordo questo. Gli occhi di mamma fuori dalle orbite per la bontà. Papà che a Portopalo mi spiega i colori, le grandezze e li apre con il suo coltello da sub mangiandoli su uno scoglio. E poi mi dice: “Amore vuoi assaggiare? Ah. No…devi vedere se c’è …”
“La cacca” ridendo insieme.
Correlati
Siciliaia: 7 Piatti a base di pesce imperdibili se vieni in Sicilia