Ci siamo lasciati con sei cose da mangiare assolutamente in Sicilia, e si trattava di preparazioni dolci. Se hai perso il post puoi rimediare cliccando qui. Oggi facciamo una carrellata di delizie salate senza dimenticare altri cenni al dolce. Sei pronto a partire per questo viaggio attraverso i sapori e i ricordi?
Polpetta con la Foglia di Limone
Nella casa al mare avevo aperto un ristorante. Era un diversivo, sia chiaro. Dopo il negozio di fiori dalla zia Mimma che ti ho raccontato ero diventata una ristoratrice. Il mio vero lavoro era disegnare. Non importava cosa ma: disegnare. Il mio sogno da bambina infatti era diventare una scrittrice e illustratrice di fiabe. Non lo sono diventata del tutto, ma continuo a giocare. Che male c’è?
Il ristorante occupava gran parte del mio tempo estivo. Il negozio di fiori e piante quello autunnale. Quello da scrittrice e disegnatrice tutte le ore che rimanevano da scuola.
Anche nel caso del ristorante avevo chiesto a mamma se potesse darmi le bolle d’accompagnamento e i fogli per le fatture. Ero preparatissima: facevo le fatture con tutte le bolle d’accompagnamento. Riferimento bolla d’accompagnamento numero. Data. E via con i piatti serviti. Poi subtotale. Totale. E la cassa arancione vecchia che papà mi aveva regalato, di cui ero orgogliosa quasi quanto la macchina da scrivere. Ma quella da scrivere era il mio gioiello.
Fuori la casa al mare c’erano delle plafoniere. Non sapevo che anche quelle si sarebbero mischiate a sogno e realtà nella mia vita futura e a quello che sarei diventata. A guardare così tutto pare che già qualcuno avesse scritto il mio destino.
Le plafoniere da esterno, esattamente marca Disano, erano basse. Altezza ginocchio allora. Si surriscaldavano parecchio e quindi sai cosa? Erano perfette per fare da fornello. Impastavo terra e acqua e con la vite americana facevo pure il condimento. Apparecchiavo dei tavolini e usavo tutti i miei equipaggiamenti da ristoratrice in carriera che avevo sottratto a mamma e che lei stessa mi aveva regalato; se c’è una cosa di mamma che mi è sempre piaciuta era proprio questa. Assecondava tantissimo le mie fantasie ed era anche un’ottima cliente. Cuocevo le polpette di terra e acqua sulle plafoniere e poi nei piattini di plastica dura, servizio colorato e bellissimo che mamma mi aveva regalato, servivo a clienti immaginari o santi che sopportavano la pantomima. Anche perché sono sempre stata antipatica ed esigente. Figlia unica che gioca da sola, ok. E che sta bene da sola, ok. Ma se giocavi con me tutto doveva essere credibile. La messa in scena non doveva essere una farsa. Dovevamo calarci nel personaggio che manco con il metodo Stanislavskij. Papà, che ancor più di mamma mi assecondava, mi fece notare che una foglia di limone sopra e sotto le polpette di fango sarebbe stato davvero molto chic.
Aveva sempre ragione, papà.
E da allora, che fossero foglie di limone o vite americana o quello che trovavo intorno, in tutti i miei ristoranti immaginari è sempre stata servita così la polpetta.
È un modo antico di servire le polpette o pezzotti di carne qui in Sicilia. Così il profumo rimane. A Messina poi fanno degli spiedini strepitosi alternando pure l’alloro. E parleremo pure di quelli.
Ma oggi, ecco, io volevo mostrarti le polpette con le foglie di limone. Di una semplicità imbarazzante ma che ti rimarranno nel cuore.
Cutuletta di Mulinciani
A cutuletta di mulinciani. La cotoletta di melanzane è una cosa seria. Ricetta facilissima, di certo non leggera ma buonissima. Se non l’hai mai provata è davvero la volta buona. Su @runlovers lo scorso anno ho fatto il panino parmigiana, ovvero mettendo una sorta di parmigiana scomposta dentro e pure una versione con questa cotoletta. Sono giorni frenetici e difficili e per questo scrivo poco. Sono felice, onorata e lusingata per tutti i messaggi e perché manca #siciliaia. Manca tantissimo anche a me, ma purtroppo per Agosto andrà così. Troppo lavoro, impegni e situazioni importanti da risolvere. Oggi però anche se posso ticchettare poco ci tenevo tantissimo a presentarti questa delizia.
Devi tagliare a fette sottile -ma non troppo- la melanzana. Preparare un piatto con delle uova e del parmigiano grattugiato e un altro con “a muddica”, ovvero il pangrattato. Tagliare delle fette di formaggio che fila e preparare pure delle fette di prosciutto cotto. Si fa così: Prendi una fetta di melanzana e ci poggi sopra formaggio e prosciutto. Poi poggi sopra un’altra fetta di melanzana come se stessi facendo un panino. Schiacci un po’. E poi come avviene nelle cotolette passi tutto prima nell’uovo sbattuto con il parmigiano, poi impani ca a muddica e via in abbondante olio caldissimo.
In moltissimi servono la cotoletta di melanzane così, ma la vera riuscita dipende da tanti fattori: lo spessore della fetta, la temperatura dell’olio (friggere mantenendola costante è fondamentale per un ottimo fritto, lo sai), il tipo di formaggio e la qualità dell’olio.
Io ho un trucchetto che ovviamente voglio condividere con te: Friggo una ad una le cotolette in modo da non fare eccessivi sbalzi di temperatura e rendere tutto perfettamente croccante. Non vado oltre un minuto/un minuto mezzo per lato in modo che il pangrattato non si bruci. Metto poi tutte le cotolette su carta da forno e via in forno per ultimare la cottura. Vengono buonissime!Vengono buonissime! Puoi farle naturalmente anche in versione vegetariana senza prosciutto oppure osare una versione che preveda la mortadella perché qui in Trinacria abbinamento melanzana-mortadella è un must. Tanto che in alcune zone viene messa -la mortadella- pure nella parmigiana.
Torno a lavorare con tanta nostalgia perché vorrei restare qui a ticchettare e ti ringrazio sempre per essere qui a tenermi compagnia e viaggiare con me tra ricordi e sapori.
Pane e Panelle
Pane e Panelle. Odore di prezzemolo e frittura. Ma puoi anche mettere l’impasto in forno. Acqua, farina di ceci, sale grosso macinato sul momento e pioggia di prezzemolo. Io per un litro e mezzo di acqua metto 500 grammi di farina di ceci perché orientativamente la proporzione è uno a tre. Il pane che le accoglie deve avere la ciuciulena, assolutamente; ovvero il sesamo. Meglio se tondi ma pure le mafaldine vanno bene dai, non ci formalizziamo. Tipico street food siculo insieme all’arancino/a, tavola calda, pane ca meusa, sfincione, crispedde e infinite delizie unte da avvolgere nella carta mentre sorridi, cammini e inciampi tra barocco, arte araba e sfumature infinite tra rovine, tempi e teatri a strapiombo sul mare. Ho provato a farle in tantissimi modi, le panelle. Pure con la proporzione un chilo di farina e tre di acqua fredda. Perché molti non smettono di dirti “più fredda è meglio è!”. Devi sciogliere la farina di ceci, il sale e pure un po’ di pepe nero macinato fresco sul momento, mescolando direttamente dentro la pentola di cottura e devi usare quelle fruste da pasticciere che ti aiuteranno a sciogliere i grumi. Se poi rimangono non dirlo a nessuno, alcuni ti consigliano la frusta elettrica o il frullatore a immersione, ma sai cosa? Dal basso della mia esperienza posso dirti che molte volte vedi dei grumi che poi dopo la cottura non ti daranno fastidio quindi vai anche solo di frusta; perché al tempo di nonna i frullatori a immersione non c’erano. Ed è bello anche così quando si preparano ricette antichissime, no? Il prezzemolo si deve mettere alla fine. Poi la pastella riposa. Un po’ come avviene con la polenta, sai? Stessa cosa. Poi tagli a triangoli o quadrati ma pure rettangoli e cuoci in abbondante olio di arachidi. Via! Caldissime ficcate dentro il panino morbido. Puoi condirle con qualche goccia di limone e passeggiare con questa delizia semplice tra le mani. A Palermo -lo conoscono tutti e te ne ho già parlato- uno dei posti più famosi è la Focacceria San Francesco (aperto anche a Milano, adesso) ma non mancano i panellari per strada che sono veri miti tra le vie.Puoi trovare anche delle varianti senza prezzemolo e profumatissime ai semi di finocchietto e interpretazioni di rara bontà. Anche farle in casa non è affatto una cattiva idea perché la vacanza sul terrazzo è un nostro diritto inalienabile. O sul balcone. Ma pure davanti a una finestra. Pane e panelle calde calde calde tra le mani. Sguardo al cielo e sembrerà che il mare ci stia bagnando i piedi in una notte d’estate sorprendentemente romantica.
I Cipuddati
La cipuddata/cipollata a seconda della regione cambia connotazione, come accade spesso con tante pietanze. Non è una frittata di cipolla e neanche un soffritto di cipolle da mangiare con il pane e così via. Nel catanese, oltre la tunnina con la cipuddata, c’è questa carne particolarmente ricca e grassa che avvolge la cipollina fresca. Si griglia sul momento e si mangia così: caldissima. Soprattutto con il pane: cucciddatu o mafaldina con la ciuciulena. Rientra a buon diritto tra lo street food perché non è così inusuale trovarla tra la centinaia di locali catanesi che offrono questo tipo di ristorazione e servizio.
Insieme agli spiedini e a tutti quei prodotti classici da barbecue, la cipuddata non può assolutamente mancare.
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U puppittuni /Falsomagro
U farsumagru. Catanese. Il Falsomagro. Ci sono diversi tipi di falsomagro e diverse variazioni più che apprezzate. Si prepara di solito con una fetta di vitello, taglio “lattughino”, con dentro prosciutto o pancetta, carne tritata, uova, cipolla, parmigiano, foglie di alloro e rosmarino e a volte anche spinaci. Sul Blog ti ho fatto vedere il Falsomagro con la carne tritata all’esterno e l’interno di prosciutto cotto, uova e formaggio. Questa volta ti mostro una versione con la fetta di carne e il ripieno. Inutile dirti che non lo preparo praticamente mai. Il Nippotorinese non è chiaramente un amante della carne siciliana, perché apprezza nettamente più il pesce. E la carne, a prescindere da me, non è molto apprezzata in casa. Koi esclusa. Il Falsomagro però è un must della cucina catanese e dovevo assolutamente presentartelo in modo ufficiale per il nostro Tour #siciliaia. Così magari se ti trovi a passare da qui, nonostante sia più una preparazione casalinga, e hai curiosità di gustarlo sai già cosa si cela dietro questo enorme pezzetto ripieno. Non ho molti ricordi legati al falsomagro, anche perché in casa mamma non lo preparava così spesso e a onor del vero neanche le mie nonne. La mia nonna siciliana, scavando tra i ricordi, credo che non l’abbia preparato mai e la nonna calabrese credo abbia fatto di tutto con la carne ma proprio il falsomagro così semplice no. Nonna Angela come minimo dentro avrebbe messo lardo, tre animali a caso e pure un pezzetto intero di maiale. Le cucine delle mie due nonne sono diametralmente opposte e non si incontrano se non nell’amore puro e sincero della preparazione.
Nonna Grazia era più da scacciata, pizza e panificava qualsiasi cosa ricamando meraviglie. Nonna Angela più da carne, frittura e roba piccante che ti va a fuoco la bocca. Del resto dice sempre che “un peperoncino e uno spicchio d’aglio al giorno tolgono il medico di torno, altro che mela!”. E a novant’anni – con la sua pelle levigata e morbidissima- nessuno potrebbe osare contraddirla.Il falso magro catanese si fa in bianco ma pure con la salsa e, ti confesso, l’ho visto fritto il giorno dopo e pure impanato. È incredibile cosa i siculi riescano a fare con gli avanzi. Anche se dovesse essere già fritto la parola d’ordine è: rifriggerlo di nuovo.
Devo chiedere a nonna se il peperoncino e lo spicchio d’aglio al giorno valgono ad annullare anche il fritto e rifritto e il lardo dentro il falsomagro.
U Pisci d’ovuU Pisci d’ovu. Il pesce d’uovo.
Una preparazione molto conosciuta in Sicilia, scrigno di ricordi e storia. Non tutte le nonne potevano mangiare il pesce, e la mia era una di queste. Nata nel 1912 in una famiglia poverissima, ha vissuto la storia più forte e lacerante. Non ho mai amato le uova e se mi leggi da un po’ sai che al pulcino liquefatto – da piccola lo chiamavo così- ho dedicato disegni, fumettoricette, deliri e infiniti trattati completamente fuori di testa. Eppure il suo pisci d’ovu mi piaceva tantissimo. Non lo dire a nessuno ma con lei mi piaceva anche la carne. Tagliata a pezzettini piccolini piccolini fritta con le molliche di pane. Un giorno devo parlartene. Con nonna Grazia mi piaceva tutto. Perché mi piaceva lei. Piccolissima, curvetta come i disegni di Miyazaki e pienissima di rughe che sembravano più solchi profondissimi. Capelli lunghissimi fin sotto la zona lombare pettinati con una spazzola che metteva sul comò. Raccolti a treccia e poi a tuppo. Occhi azzurrissimi poi bianchi perché diventata cieca ricamandomi il corredo più bello che si possa anche solo sognare, chiuso in un baule come nell’ottocento. Viveva per il suo Turiddu, ultimo di quattro figli, che mi diceva sempre essere “buono e gentile”. Poi mi accarezzava la testa e mi diceva: anche tu sei buona e gentile. Devi esserlo sempre. E quelle parole mi rimbombano in testa perché nella vita ho imparato con il tempo che la vera ricchezza sta proprio lì. Il pesce d’uovo ricorda il sapore del pesce. Chi non poteva mangiarlo almeno diceva così. A me ricorda l’odore della cucina di nonna. Si fa con la muddica (il pangrattato) e l’uovo. E ci metti pure un po’ di formaggio e sale se vuoi. Lo sbatti veloce veloce e lo friggi. Lo puoi fare a forma di pesce se proprio vuoi fare lo spiritoso. Oppure puoi arrotolarlo e poi tagliarlo o così. Semplice e tondo. Ma pure tutto scontornato e non troppo preciso. Quando resta l’uovo e il pangrattato dalle preparazioni delle cotolette per un siciliano è subito momento Pisci d’ovu, per dirne una.
Pasta e Fagioli
“Titti se ti faccio la pasta con la triaca senza pasta vieni a cena da me?”. Così ha detto lo zio Benny, l’altra sera. La triaca sono i fagioli; quelli disegnati come da una china 0.5 impazzita alternata a una 0.8 color rosa su sfondo bianco. Lo zio Benny mi chiama Titti perché quando ero piccolina con i capelli biondi e scompigliati la ricordavo un po’ Tweety. La pasta con la triaca era uno dei piatti preferiti del mio papà. Insieme alla Norma. Un’occasione perfetta per passare del tempo prezioso in famiglia insieme a Benny, Agata, Guido, Ettore, Martina e Clelia -che anche se studia a Roma- con il cuore era lì. E anche se Cate era a Torino, uguale. In un terrazzo magico pieno di piante e un albero di giada talmente enorme da farmi spalancare la bocca è trascorsa la sera. Ho una famiglia bellissima, io. Riscoperta da adulta e compresa con i tempi maturi. Lavoriamo anche insieme a dimostrazione del fatto che si può, eccome. Siamo amici e ci siamo scelti. Non siamo capitati e non è solo importante per me. Ma fondamentale. La pasta con la triaca senza pasta era buonissima e tra una risata, un racconto e un ricordo mi sono gustata ogni cucchiaiata. La zia Agata e lo zio Silvestlo (perché altrimenti che Titti sarei?) mi hanno detto che si fa così: battuto sedano, cipolla e carota e patate tagliate piccole piccole piccole. Ho detto piccole? Poi i pomodorini datterini, acqua quanto basta e la triaca. Sbucciata sul momento. Se la fai con la pasta allora l’aggiungerei al momento opportuno quando i fagioli sono praticamente cotti. Meglio i ditali o pasta corta. Se fai la versione magica appositamente inventata per me della pasta con la triaca senza pasta allora no. Non dovrai aggiungere la pasta.
Da quella sera almeno una volta a settimana la faccio. Non è buona come quella dello zio Benedetto ma è giusto così. Quella speciale posso mangiarla solo con loro. L’attesa di questo tipo è sempre poetica e mai straziante, del resto. .
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Torta Savoia
Si tramanda che questo dolce, la Torta Savoia, fu preparato il 24 Dicembre del 1713 a Palermo quando Vittorio Amedeo II di Savoia fu incoronato Re di Sicilia. La Torta Savoia, conosciuta in tutta la Trinacria, è tipica delle feste natalizie. A me ricorda le lunghe tavolate di dolci tra turdilli -preparazione calabrese- buccunotti, cassate e infinite meraviglie intrecciate a paste, frutta secca, datteri e tonnellate di pistacchi con l’immancabile frutta esotica. Su un libro delizioso, regalo preziosa della Dottoressa Suocera e di Paola eletta a buon ragione migliore cognata degli universi, che parla della pasticceria torinese ce ne è una versione con i gianduiotti eseguita magistralmente da Salvatore Cappello di Palermo. Uno di questi giorni vorrei prepararla insieme a te. Nel frattempo ti mostro una versione acquistata dai Fratello Aiello, che con il cioccolato sono i migliori e che ti consiglio caldamente qualora dovessi essere a Catania. Un legame profondo quello tra Torino, la mia amata seconda casa, e la Sicilia. Il risultato dolciario più gustoso è indiscutibilmente la Torta Savoia; che ahimè non troverai con facilità soprattutto nei periodi caldi ma che puoi sempre ordinare come ho fatto io perché il siculo sarà felice di accontentarti.
(E sì. Mi è stato chiesto da tantissimi: ricomincerò anche con la mia Torino.
Nzudde
In piena Estate vedere le Nzudde è strano. Vederle da Russo a Santa Venerina, no. Perché lì tra quell’azzurro e quel dorato, come il Paradiso, non c’è il tempo ma solo tradizione e amore. Una rama di Napoli a ferragosto ti sembra normale da inzuppare dentro la granita, insomma. E quando ho viste le Nzudde non ho potuto che portarle con me. Dovevo presentartele. Non potevo aspettare la fine di Ottobre e gli inizi di Novembre; perché quello è il periodo. Sai quando hai fretta di far vedere a un tuo amico una cosa bella? Ecco. Stessa cosa.
Al centro troneggia una mandorla in tutto il suo splendore. E il sapore è proprio quello perché ti scoppia nel palato insieme alla cannella e a quel miele che a me porta solo in un posto: sull’Etna.
A ogni stagione troverai diversi camionette strapiene di pesti, creme e miele di ogni tipo e sorta ma soprattutto che richiamano i sapori di tutta l’isola. Non dovrai chiedere il permesso di poter assaggiare ogni bontà perché ti correranno letteralmente dietro con un cucchiaino in mano.
Le Nzudde venivano preparate dalle suore di San Vincenzo di Catania ed è proprio per questo che si chiamano così. Il vezzeggiativo affettuoso di Vincenzo infatti è Vincezzuddu e per questo motivo ‘nzuddu. Diventate poi ‘nzudde sicuramente in onore delle suore e per questo volte al femminile. Domenica ho portato Ombretta da Russo. Di nuovo. Sarebbe tornata a Roma l’indomani -perché il tempo insieme accelera sempre troppo pericolosamente- e quel luogo è come diventato un rito. Ho avuto, come sempre accade, la piacevole fortuna di scambiare due chiacchiere con la proprietaria, donna di rara bellezza e autenticità.E mentre parlavamo di piparelle -che ti mostrerò prestissimo-, di pupi di zucchero che troneggiano nelle vetrine da oltre vent’anni e di statuette di pasta reale mi è comparsa l’immagine di zia Mimma (sorella di Nonna) che sistemava le nzudde su un piatto ricamato di blu. Investita da quel tempo e dal profumo mi sono ritrovata nel piccolo cortile pieno di piante, vasi e fiori e ho ritrovato l’immagine di un capanno. Piccolo, con tutti gli attrezzi e gli annaffiatoi, che avevo proprio rimosso. Una catarsi, questo viaggio. Non intesa come in psicoanalisi per liberarsi di esperienze traumatizzanti ma l’esatto opposto. Come nella religione della Grecia classica; come rito di purificazione. Liberare corpo e anima da ogni contaminazione per dar spazio a tutto quello di profumato, vero e sincero c’è e c’è stato.
Sistemare e allineare tutti i cassetti della memoria ti fa trovare ricordi che non meritavano di essere seppelliti. Gli stessi che prenderanno il posto di ciò che deve essere cestinato.
Nzudde grazie. Mi avete fatto ritrovare il piccolo capanno della zia Mimma dove giocavo a fare la fioraia. E la stilista. E la scrittrice. E la ricercatrice di farfalle e insetti.
I piparielli e Frutta Martorana
Le Piparelle o Pipareddi. A Messina sono maestri nello sfornare questi biscottini deliziosi che ricordano i cantucci. Profumano di scorza di arancia, c’è il miele dentro e non può mancare il sapore dei chiodi di garofano e neanche il pepe, chiaramente. A Catania esiste questa versione intera e non tagliata -come il più delle volte avviene- e anche a base di cacao. In realtà sono due biscotti completamente diversi; questo perché nella versione che ti propongo oggi, acquistata da Russo a Santa Venerina, in realtà l’impasto è composto principalmente dalle paste di mandorla invendute e fatte seccare. In pratica, senza aggiungere alimenti chiaramente non a norma come gli agenti lievitanti, vengono rimescolate le paste di mandorla secche insieme ad altri ingredienti e infornati una prima volta. A volte infornati una seconda volta dopo il taglio. Si potrebbe fare quindi confusione tra questo tipo di piparelle con prodotti riutilizzati e quelle classiche e più conosciute che, ripeto, somigliano tantissimo per forma (ma non per gusto) ai classici cantucci toscani. Il sapore ricorda molto le Rame di Napoli. TI ho parlato di questi biscotti buonissimi sul blog decine di volte e soprattutto in occasione della festa dei Morti, molto sentita al sud e in particolar modo in Sicilia. Si era soliti fare i regali in quella notte ai bambini; doni che avevano portato i cari non più in vita. Nella mia famiglia questa tradizione non c’è mai stata e poi ti ricordo che mamma è sempre quella che mi ha detto “Amore, Babbo Natale e la Befana non esistono ma tu non devi mai dirlo agli altri bambini, ok?”. Incredibile come da questa feroce razionalità -tra l’altro inspiegabile perché mamma tutto è tranne che razionale- abbia sviluppato in me una fantasia galoppante e talvolta preoccupante. Mamma, quando faccio un po’ la lagna e mi lamento, dice sempre che l’ha fatto perché nonna l’aveva terrorizzata con la storia della Befana. La notte tra il cinque e il sei gennaio tremava e stava ferma ferma sotto le coperte per paura di vedere la signora con la scopa, il fazzoletto in testa e il nasone. Certo il più furbo era lo zio Benedetto che lasciava alla befana in cucina un panino con la mortadella e un bicchiere di vino con relativa letterina e richiesta di regali. Mi chiedo sempre se effettivamente io non abbia mai avuto paura di qualcosa per la straordinaria capacità di mamma di razionalizzare morti-babbo natale o befana. Di fatto so che mi sarebbe piaciuto lasciare delle piparelle, dei biscottini o delle letterine a tutti i morti. E pure delle rame di Napoli. Non escludo di recuperare al più presto.
Alla befana, il panino alla mortadella. Chissà che non si ricordi dello zio.
I biscotti della Monaca
Sono cresciuta con nonna Grazia, mamma di papà, e zia Mimma, sorella di nonna; quest’ultima mai sposata e mai avuto figli e pure con la storia drammatica di aver perso il fidanzato in guerra.
Nonna è rimasta vedova presto e quindi abitavano insieme. Prima una stradina piccola di un paese in provincia di Catania divideva le due case. E proprio vicino c’era l’altro fratello, lo zio Ciccio, con la sua lapa arancione che adoravo. Tre fratelli adorabili che se ci penso sembrano usciti da una storia di Miyazaki.
Papà e Mamma avevano aperto l’attività, che poi sarebbe entrata a far parte delle nostre vite in modo prepotente e al tempo stesso importante e meraviglioso, e quindi lavoravano come matti. Andavo in collegio da Padre Giuliano dalle 8 alle 17 e poi verso le 21, se andava bene, mamma e papà mi venivano a prendere da Nonna e zia.
Facile credere che ci siano persone fortunate e persone meno fortunate. Certo la vita ti ferma, blocca e fa avanzare in determinati momenti per poi farti indietreggiare, ma di fatto dietro i successi c’è sempre un impegno che davvero in pochi riescono a vedere, capire e provare sulla propria pelle.
Mamma e Papà lavoravano anche di domenica. Nonostante l’attività andasse bene nei primi anni mio papà continuava a fare l’elettricista e metteva allarmi in tutta Taormina e tutto il versante orientale siciliano. Poi tornava e con la sua voce bassa, calma e profonda mi chiamava “Alivooo!!!”. Ma di Alivo ti racconto un’altra volta.
E io stavo lì da Nonna e zia ad aspettare il loro ritorno. A sentire quell’alivo. E quel “tata”, di mamma.
Insomma non lo dire a nessuno ma io sono Alivo per papà e Tata per mamma. A volte mi chiamava Cicitta. Mi è sempre piaciuto anche Cicitta ma Tata è nel mio cuore come Alivo.
Capitava quindi che dormissi anche lì da nonna e zia e facessi colazione. E quando stavo male o semplicemente tornavo prima dal collegio stavo sempre lì. Su quel divano di finta pelle marrone tutto sgangherato e affossato al centro.
E c’era una cosa che la zia Mimma non mi faceva mai mancare: i biscotti della Monaca.A forma di S. In una confezione rossa adesso leggermente cambiata. Apriva il pacco e si sprigionava già tutto il profumo. Li disponeva lentamente e meticolosamente, perché era precisa e lenta, su un piattino e poi me lo poggiava sulle ginocchia quando ero seduta sul divano sgangherato. E indovina cosa facevo? Disegnavo.
Disegnavo e mangiavo i biscotti della Monaca e aspettavo di sentire “Alivo” e “Tata”. Tutto il tempo.
Non che non mi piacesse stare con nonna e zia, ci mancherebbe. Due donne di una bellezza unica e rara che mi hanno insegnato tanto (anche che le telenovelas venezuelane possono essere avvincenti). Ma con loro due, due matti davvero, mi divertivo un mondo. Ma che dico un mondo. Infiniti mondi.
Perché erano (e sono) strambi, divertenti e due genitori assolutamente non convenzionali. Entrambi sopra le righe. Forse un po’ troppo ma anche per questo motivo li ho amati infinitamente e sempre continuerò a farlo con tutta la passione che ho dentro.
Mi ero convinta che questi biscotti li facessi la zia della zia Mimma. Sì perché era una monaca di clausura. E io dicevo sempre: “Ma li ha fatti la prozia di clausura?”. La zia Mimma diceva: “No”. Poi quando vedevo papà gli dicevo “Sai che ho mangiato i biscotti della Monaca! La tua prozia chiusa nel convento di clausura li ha fatti solo per me”. Papà sapeva che stavo dicendo sciocchezze. E io sapevo che lui lo sapeva. Eppure ridacchiava nel suo modo adorabile. E io lo guardavo innamorata perché fingeva benissimo.
A me i biscotti della Monaca ricordano questo. Le storie inventate e i consensi d’amore. La zia Mimma che ti stronca con la sua meravigliosa verità assoluta. Papà che costruisce mondi.
Una volta gli ho pure detto che ero andata nel convento di clausura a trovarla.
E lui mi ha risposto “Potevi chiamarmi che venivo anche io”. Adesso aprire il pacchetto per fare la foto mi ha portato proprio lì. In quel convento mai visto. Con la prozia mai vista. E con la zia Mimma che in questo momento se mi legge sarà pure un po’ arrabbiata.
Dai zietta. Sorridi.
La Brioscina tomarchio e il Frappè
Ti ho parlato della brioscina Tomarchio, simbolo indiscusso delle dispense e dei cestini che i bimbi portavano a scuola Anche quelli che bimbi non lo erano più (piccolo inciso: i catanesi chiamano brioscina qualsiasi merendina. È inteso in senso generico. Bizzarro me ne rendo conto ma così è). La brioscina Tomarchio dopo essere stata imbottita di nutella è finita dentro la nutella. Frullata con latte ghiacciato e servita a tutte le ore, soprattutto quelle notturne, nei chioschi di Catania; e in particolar modo nel chiosco di Piazza Roma, diventato casa del famigerato Frappé alla nutella. Mi spiegava la romana del mio cuore, Ombretta, che a Roma per esempio frappé implichi la presenza del gelato mentre il frullato solo del latte. Bene, questa distinzione qui non c’è ma di sicuro quel latte pronto ad accogliere nutella e brioscina Tomarchio all’interno del bicchierone del frullatore ghiacciato è una certezza. Un bicchierone gigante che dopo più di vent’anni ancora è in auge e più gustoso che mai. All’uscita dalla discoteca ma anche al tardo pomeriggio il frappé alla nutella, e non solo tra i giovanissimi, è una tappa obbligata. E tra selz al limone e mandarinetto verde non è così inusuale vederlo fare capolino anche alle ore più impensabili del giorno (e ne parlerò presto dei chioschi perché urge capitolo a parte). Corposo proprio per la presenza della brioscina e dal gusto inconfondibile di nutella, diventa uno sposalizio -Sicilia/Piemonte a me caro- perfetto in quanto entrambi emblema dell’infanzia di ognuno di noi. La Tomarchio c’è. La nutella pure. E come contorno a questa magica cornice pure il latte.
Se lo provi con il latte di mandorla -qualora lo volessi fare a casa- avrai servita un’altra nota di sapore davvero interessante.